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Autodisciplina nello studiare

L’AUTO-DISCIPLINA È MOLTO PIÙ IMPORTANTE DEL QUOZIENTE DI INTELLIGENZA (ed è il motivo per cui i nostri ragazzi falliscono a scuola)

In America, un rendimento scolastico scadente è solitamente attribuito all’incapacità degli insegnanti, ai programmi scolastici noiosi e alle classi troppo numerose. La stessa cosa accade qui in Italia: gli insegnanti sono noiosi e impreparati, i compiti eccessivi e via dicendo. Tuttavia, esiste un’altra spiegazione per dare conto dell’incapacità degli studenti di esprimere il proprio potenziale intellettuale, ed è il loro fallimento nell’auto-disciplina.

La chiave per il successo scolastico è l’auto-disciplina
Angela Duckworth, studiosa americana che ha concentrato le sue ricerche proprio in questo campo, è convinta che i problemi scolastici siano siano dovuti ai problemi che i bambini americani dimostrano nel compiere scelte che richiedono un sacrificio nel breve termine per ottenere un beneficio nel lungo termine. In altre parole, mancano la grinta e la disciplina necessarie a sostenere una piccola dose di noia e fatica in vista del successo personale futuro. La Duckworth, utilizzando questa teoria dell’auto-disciplina, è riuscita a spiegare il gap nelle prestazioni scolastiche tra maschi e femmine: le studentesse ottengono risultati migliori poiché hanno una capacità maggiore di disciplinarsi. Inoltre, l’auto-disciplina si è rivelata una misura molto più efficace rispetto al QI (il quoziente intellettivo) nel predire i risultati scolastici.

GRIT test (Test per misurare la grinta)
Esiste un test per misurare il proprio livello di grinta e valutare l’auto-disciplina, sviluppato proprio dalla dott.ssa Duckworth. Il test richiede pochi minuti; si tratta di assegnare un punteggio a otto frasi in base a quanto rappresentano la tua persona. Ecco come assegnare il punteggio:

1 = Non mi rappresenta affatto
2 = Non mi rappresenta più di tanto
3 = In qualche modo mi rappresenta
4 = Mi rappresenta bene
5 = Sono io! Mi rappresenta alla perfezione

E adesso, ecco le otto frasi alle quali attribuire il punteggio:

  1. A volte una nuova idea o un nuovo progetto mi distrae da quelli che sto portando a termine.
  2. Se incontro degli ostacoli o la strada è in salita (metaforicamente!) non mi scoraggio.
  3. Certe idee o progetti sono il mio unico pensiero per un breve periodo di tempo, poi perdo l’interesse.
  4. Mi piace lavorare duro.
  5. Spesso mi prefiggo un obiettivo, ma poi scelgo di perseguirne un altro.
  6. Ho difficoltà a mantenere la concentrazione su un progetto che richiede più di un mese per essere portato a termine.
  7. Finisco ciò che comincio.
  8. Sono una persona diligente.

Fatto? Ecco come calcolare il risultato finale:

  • Somma i punteggi delle frasi 2, 4, 7 e 8.
  • Somma i punteggi delle frasi 1, 3, 5 e 6; sottrai questo numero a 24.
  • Somma i due numeri che hai ottenuto e dividi il risultato per 8 (utilizza una calcolatrice e considera le prime due cifre decimali).

Ecco un esempio svolto.
Immagina di aver ottenuto i seguenti risultati per le 8 frasi:

  1. 3
  2. 2
  3. 4
  4. 4
  5. 4
  6. 2
  7. 3
  8. 3

Adesso devi calcolare il tuo punteggio:

  • Sommiamo i punteggi delle frasi 2, 4, 7 e 8. Otteniamo 12.
  • Adesso sommiamo i risultati delle frasi 1, 3, 5 e 6. Otteniamo 13. Adesso sottraiamo 13 a 24. Otteniamo 11.
  • Per concludere, sommiamo 12 e 11. Otteniamo 23, che dobbiamo dividere per 8, considerando le prime due cifre decimali. Otteniamo 2,87.

Il risultato più elevato che si può ottenere è 5, mentre il risultato più basso che si può ottenere è 1. Il risultato medio per la popolazione maschile è 3,37, mentre per la popolazione femminile è 3,43.
E tu, che risultato hai ottenuto?

 

Angela Duckworth, Grinta. Il potere della passione e della perseveranza, Giunti, 2017

LA BUONA EDUCAZIONE PER PREPARARSI ALLA SCUOLA

Daniele Novara, pedagogista e fondatore del CPP, è convinto dell’importanza della buona educazione, ovvero l’insieme delle buone pratiche convalidate dalla scienza e alla portata di tutti.

Purtroppo, la proliferazione incontrollata delle informazioni, unita alla mistificazione delle fonti, può trarre in inganno un genitore che, come è naturale, non è detto sia uno scienziato o un pedagogista.

Facciamo un esempio.

Daniele Novara, nel suo testo “Non è colpa dei bambini“, suggerisce tre buone pratiche per tutti i bambini in età scolare:

A scuola in buone condizioni:

Uno: i bambini devono dormire. Un bambino che frequenta un tempo pieno ha bisogno di dormire almeno 10 ore per notte.

Due: i bambini devono fare colazione prima di arrivare a scuola. Sembra scontato, eppure la gestione della fase del risveglio è un problema piuttosto diffuso e serio. Se un bambino non fa colazione, inevitabilmente andrà in crisi, è fisiologico.

Tre: occorre evitare l’invadenza degli schermi. Un bambino che passa 2 o 3 ore al giorno davanti a un videoschermo, magari prima di dormire e prima di andare a scuola, inevitabilmente nel contesto scolastico sarà distratto, quando non addirittura assente. Gli studi più recenti che hanno approfondito la questione sostengono che il tempo massimo che in fase di sviluppo un bambino dovrebbe passare davanti a uno schermo sia sui 40 minuti al giorno“.

In sostanza, l’educazione comincia realizzando un ambiente adatto e favorevole all’apprendimento, un ambiente a partire dal quale sarà possibile compiere tanti passi ulteriori.

D. Novara, Non è colpa dei bambini, BUR, 2017

ASSECONDIAMO IL DESIDERIO DI ATTIVITÀ DEL BAMBINO

Questa lettura fa parte di un ciclo di tre letture tratte da “Il bambino in famiglia”, che contengono i tre consigli di Maria Montessori alle madri (e, aggiungiamo noi, ai padri).

“Il secondo principio è questo: bisogna assecondare quanto più è possibile il desiderio di attività del bambino; non servirlo, ma educarlo all’indipendenza.”

Il bambino si sviluppa secondo natura, è vero, ma appunto perciò ha bisogno di esercitarsi molto.
Se gli manca l’esercizio, la sua intelligenza rimane in un gradino inferiore; direi quasi che vi è una specie di sosta nello sviluppo di quei bambini che da piccoli sono sempre stati sorretti e guidati. Chi non sa rispettare le manifestazioni dei piccoli, fin dai primi pasti, dopo l’allattamento, caccerà loro brutalmente in bocca il cucchiaino della pappa.
Invece, se si farà sedere il bambino al suo tavolino lasciandogli il tempo necessario per mangiare, si vedrà subito la sua manina afferrare il cucchiaino e portarlo alla bocca. Questo è certo un grande compito per una madre e ci vuole molta pazienza e molto amore; la madre deve nutrire contemporaneamente il corpo e lo spirito, ma lo spirito deve avere la precedenza. Occorre che essa lasci da parte momentaneamente i suoi concetti – certo lodevolissimi – riguardo alla pulizia, poiché in questo caso essi hanno un valore del tutto secondario. Il bambino che comincia a mangiare da solo non sa certo farlo bene e per conseguenza si insudicia molto.
Ebbene, si sacrifichi la pulizia al suo giustificato impulso di attività. Nel corso del suo sviluppo, il bambino perfezionerà i movimenti e imparerà a mangiare senza insudiciarsi. La pulizia, quando è conquistata così, rappresenta un vero progresso, un trionfo per lo spirito infantile. Lo sforzo di volontà di cui il bambino è capace si dimostra in una quantità di esercizi ragionevoli che egli compie continuamente. Assai prima di parlare, anzi, assai prima di camminare – già verso la fine del primo anno di vita – comincia ad agire, come se obbedisse a una voce interiore.
I suoi tentativi per mangiare da solo adoperando il cucchiaino sono commoventi: non riesce a portare alla bocca il cibo che desidera – ha fame – eppure respinge tutti quelli che lo vogliono aiutare. Soltanto dopo aver placato il suo bisogno di attività accetta l’aiuto della madre.

Un giorno, con un bambino di un anno che aveva appena imparato a camminare, ero in campagna su di un sentiero sassoso; il mio primo impulso fu di prendere il bambino per mano, ma mi trattenni dal farlo e cercai di guidarlo con le parole: «Cammina da questo lato!» – e «Bada, qui c’e un sasso!» – «Stai attento qui!».
Egli ascoltava tutto con una specie di gioconda serietà e obbediva.
Non cadde mai, né si fece male. Io lo guidavo passo passo col leggero mormorio della mia voce ed egli mi ascoltava attentamente e godeva così di poter compiere un’attività ragionevole, di comprendere le mie parole e di corrispondervi coi suoi movimenti.
Guidare il bambino in questo modo: ecco il vero compito della madre. Il vero aiuto non dev’essere prestato per cose inutili o arbitrarie; deve corrispondere agli sforzi dell’anima infantile. Il presupposto dev’essere la comprensione della natura infantile e il rispetto per tutte le forme della sua attività istintiva”.

Maria Montessori, Il bambino in famiglia, Garzanti, 2018 

I tre pilastri dell’educazione

I TRE PILASTRI DELL'EDUCAZIONE

Lo psichiatra Paolo Crepet ha individuato tre elementi fondamentali che dovrebbero guidare un genitore nel crescere i suoi figli, tre stelle da seguire: autonomia, autostima, creatività.

La giusta mescolanza di questi tre fattori è in grado di produrre una generazione determinata e sicura di sé, ma anche capace di seguire passioni e ideali. Qualcuno potrebbe pensare che le si apprendano in modo spontaneo, nel corso naturale della crescita. Ma questo è vero solo in parte.

Crepet, in “La gioia di educare” prende l’esempio di un bambino piccolo che, attirato da un vaso rosso poggiato su un mobile, gattona fino ai piedi del mobile e dunque cerca di alzarsi sulle sue gambe per afferrarlo. In questo gesto vi è una miscela portentosa di autonomia (il bambino compie questa impresa mosso da un proprio interesse e contando sulle sue sole forze), autostima (il bambino si muove spinto da un piacere sincero nel fare quel che fa) e creatività (il bambino, non potendo raggiungere il vaso gattonando, crea una soluzione: si alza).

Il bambino, se nessuno intervenisse a correggerlo, svilupperebbe in modo naturale le sue tre doti fondamentali. Eppure, come sottolinea lo psichiatra, la prima reazione degli adulti che lo circondano sarebbe quella di tendergli il vaso, o di portarlo via per paura che si ferisca. Ecco spiegato il motivo per cui autonomia, autostima e creatività spesso non riescono a svilupparsi a sufficienza: la cattiva educazione.

“Cosa fa infatti il cattivo educatore? Prende quel bicchiere e glielo porge, magari dicendogli: tesoro mio, non c’è nessun bisogno che fai tutti questi sforzi, non è necessario cadere e rialzarsi ogni volta, ci sono qui io e ti posso aiutare…io ti voglio bene.
Un gesto così l’abbiamo chiamato spesso amore, invece è un tranello“. Paolo Crepet

Quest’idea non è del tutto nuova: parole simili furono spese da Maria Montessori a proposito di tutti quei casi in cui aiutando un bambino, piuttosto che fargli del bene, lo danneggiamo.

P. Crepet, La gioia di educare, Einaudi, 2015

INVECE DI GIUDICARE, OFFRIAMO UN’ALTERNATIVA

Il pensiero laterale offre ai genitori una cassetta degli attrezzi molto sofisticata: imparare ad evitare i giudizi e a lavorare su un ampio ventaglio di soluzioni, anche sulle più improbabili, è utile in più di un’occasione.

Decidere di allenare il proprio pensiero laterale è vantaggioso anche sul piano dell’intelligenza emotiva e dell’allenamento emotivo dei figli. Leggi questo breve estratto in cui John Gottman, in “Intelligenza emotiva per un figlio: una guida per i genitori” ci insegna a non giudicare, ma ad offrire un’alternativa concreta:

“Come genitori nessuno di noi vuole che i nostri figli si accontentino di costruire scatole traballanti. Non vogliamo che i figli crescano pigri, ritrosi, aggressivi, stupidi, codardi, falsi. Ma non vogliamo nemmeno che questi difetti divengano le caratteristiche con cui i nostri figli definiscono se stessi. Come si può evitare questo genere di etichette negative? La risposta è astenersi dalle critiche generali e persistenti sui tratti della personalità del bambino. Quando si correggono i figli, bisogna concentrare l’attenzione su un episodio specifico, che è avvenuto qui e ora nella loro vita. Invece di dire: «Sei così distratto e confusionario,» bisogna dire: «Nella tua stanza i giocattoli sono sparsi dappertutto».
Invece di dire: «Leggi troppo lentamente,» è bene dire: «Se ogni sera ti dedicherai alla lettura per mezz’ora, imparerai a leggere più in fretta».
Invece di «Sei muto come un pesce,» dite: «Se parli più forte, la cameriera può sentire quello che dici».”

Il principio è semplicissimo; eppure, quante volte non riusciamo a comportarci così? Troppe. Questo dipende in parte dalla stanchezza (lo stesso Gottman insegna che ci sono casi in cui si è troppo stanchi per educare in modo efficace, e in quei casi sarebbe meglio farlo presente ai ragazzi e ritagliarsi una pausa rigenerante), ma più frequentemente la responsabilità è delle nostre abitudini mentali poco creative. Siamo talmente abitudinari che ci “dimentichiamo” di cercare un’alternativa creativa da offrire ai nostri figli.

Lavoriamo sul pensiero laterale a partire da questi casi, quelli in cui giudichiamo per incapacità di offrire una soluzione. Cominciamo giocando e perseveriamo, finché questa buona abitudine non sarà diventata uno stile di pensiero vero e proprio.

J. Gottman, Intelligenza emotiva per un figlio: una guida per i genitori, BUR, 2015, pag. 168

L’insegnamento più importante di Maria Montessori alle madri

L’INSEGNAMENTO PIÙ IMPORTANTE DI MARIA MONTESSORI ALLE MADRI

Questa lettura fa parte di un ciclo di tre letture tratte da “Il bambino in famiglia”, che contengono i tre consigli di Maria Montessori alle madri (e, aggiungiamo noi, ai padri).


“Cercherò di enumerare i principi che possono servire alla madre per trovare la via più giusta.
Il più importante è: rispettare tutte le forme di attività ragionevole del bambino e cercare di intenderle.

Dirò prima di tutto di una bambina di tre mesi, un piccolo essere sulla soglia della vita.
Questa bambina sembrava avere appena allora scoperto le sue mani e faceva ogni sforzo per osservarle bene, ma le sue braccine erano troppo corte e, per guardarsi le mani, doveva torcere gli occhi. Era dunque in grado di compiere uno sforzo abbastanza grande. C’era tanto da osservare intorno a lei, ma soltanto le sue manine la interessavano. I suoi sforzi erano l’espressione di un istinto, che sacrificava le proprie comodità per appagare un soddisfacimento interiore.
Più tardi diedero alla bambina qualcosa da tenere in mano, da toccare. Lo teneva con indifferenza.
Quell’oggetto, apparentemente, non la interessava. Aprì la manina e lo lasciò cadere senza punto curarsene. Invece il suo visino prendeva un’espressione intelligente ogni volta che si sforzava di afferrare oggetti con le manine – vicini o lontani – spesso senza riuscirvi. Osservava con aria interrogativa le sue manine, come per dire: «Com’è che qualche volta riesco ad afferrarli e altre volte no?».
Evidentemente il problema della funzione delle mani aveva attirato la sua attenzione. Quando poi questa piccina arrivò a sei mesi, le diedero un sonaglio con un campanellino d’argento. Glielo misero in mano, aiutandola a scuoterlo per far suonare il campanellino. Dopo qualche minuto la bambina lasciò cadere il sonaglio. Lo raccolsero e glielo diedero nuovamente, e così per molte volte.
Sembrava che la bambina avesse uno scopo nel far cadere il sonaglio e nel rivolerlo subito dopo.

Un giorno, mentre lo teneva ancora nella manina, cominciò, invece di aprire, come al solito, tutta la mano, a sciogliere prima un dito, poi un altro e un altro; finalmente si aprì anche l’ultimo ditino e il sonaglio cadde a terra. La piccina si guardava le dita con la più grande attenzione. Rifece il movimento continuando a guardare le sue piccole dita. Quello che l’interessava non era evidentemente il sonaglio, ma il gioco, la «funzione» delle dita che sapevano tenere quell’oggetto, e quest’osservazione le procurava gioia. Prima la bambina aveva forzato gli occhi in una posizione incomoda per poter osservare la mano, ora ne studiava il funzionamento. La madre saggia si limitava a raccogliere pazientemente e restituire il sonaglio. Prendeva parte, così, all’attività della sua figliolina e capiva la grande importanza che aveva per lei il ripetersi di questo esercizio.
Questo è un piccolo fatto, che spiega i bisogni più semplici di un bambino nella sua prima età.

Forse molti dubiteranno che vi sia nei più piccini questa vita interiore. Bisogna, certo, imparare a capire il linguaggio dell’anima che si forma, come ogni altro linguaggio, se si vogliono conoscere le necessità dei piccoli esseri e persuadersi della loro importanza per la vita che si sviluppa.
Il rispetto della libertà del bambino consiste nell’aiutarlo nei suoi sforzi per crescere.

Un altro caso.
Un bambino di circa un anno guardava un giorno delle figure che la madre gli aveva preparato già prima ch’egli nascesse. Il piccino baciava le figure dei bimbi ed era attirato specialmente dalle figurine più piccole. Sapeva anche distinguere le immagini dei fiori e le avvicinava al visino facendo mostra di odorarle.
Era chiaro che il bambino sapeva come ci si comporta coi fiori e coi bambini. Alcune persone presenti trovarono che il piccino aveva una grazietta inimitabile e si misero a ridere e cominciarono a fargli baciare e odorare una quantità di oggetti, ridendo di queste sue manifestazioni, che a loro sembravano buffe, e alle quali non annettevano nessun significato. Gli diedero dei colori da odorare e dei cuscini da baciare, ma il piccino divenne tutto confuso e dal suo visino era scomparsa quell’espressione attenta e intelligente che dianzi lo abbelliva tanto.
Prima era stato tutto felice di saper distinguere una cosa dall’altra e di esplicare l’attività corrispondente: era questo un nuovo, importante acquisto della sua intelligenza, questa occupazione ragionevole l’aveva reso completamente felice.
Ma egli non aveva ancora la forza interna per difendersi dalla intromissione brutale degli adulti.
Così finì col baciare e odorare tutto indistintamente, ridendo nel veder ridere coloro che lo attorniavano e che gli avevano sbarrato la via per evolversi indipendentemente.
Quante volte facciamo qualcosa di simile coi nostri bambini senza saperlo!”

Maria Montessori, Il bambino in famiglia, Garzanti, 2018

Bambini e autostima

AUTOSTIMA IN 7 REGOLE: ECCO COME CRESCERE BAMBINI SICURI

Dargli obiettivi realistici, complimentarsi per i successi, criticarlo ma in modo costruttivo, credere in lui, aiutarlo al momento giusto, fare il tifo per lui e fargli coltivare i suoi talenti.

 

Sono questi i 7 consigli del pedagogo francese Bruno Hourst per crescere figli capaci di affrontare le avversità della vita.

La stima di sé è l’arma fondamentale per riuscire nella vita e si costruisce principalmente durante l’infanzia.

Parola dello psicologo e pedagogo francese Bruno Hourst, secondo il quale è proprio la mancanza di autostima il maggior freno allo sviluppo e all’espressione delle proprie capacità.

Aiutato dai genitori, dunque, un bambino può crescere sano, forte ma anche ricco di resilienza non solo nel fisico ma anche nello spirito. Ma come possono i genitori aiutarlo a crescere consapevole di se e del proprio valore? Insomma, come motivare i bambini tutti i giorni?

Sotto trovate 7 semplici regole da applicare nella vita di tutti i giorni, oltre ai consigli sull’importanza di incoraggiare i bambini a dire quello che pensano, rafforzare la memoria del successo e il senso di invisibilità.
7 regole per rafforzare l’autostima di tuo figlio, coltivare la memoria del successo, combattere il senso di invisibilità.

La 7 regole per coltivare l’autostima di tuo figlio

1 ) Per evitare che si scoraggi, se l’obiettivo è impegnativo si può aiutare il bambino a tagliare il traguardo attraverso alcune tappe. Se, ad esempio, ha 4 in matematica, è irrealistico pretendere un 8 a breve termine. È invece più facile che riesca ad arrivare al 5 la volta successiva, al 6 quella dopo ancora e al 7 alla terza prova per raggiungere l’8 alla quarta.

2 ) Per rafforzare la memoria dei successi (quali che siano: anche un goal alla partita all’oratorio) può essere utile creare un “calendario dei successi”, sul quale annotarne uno ogni settimana perché sia immediatamente visibile.

3 ) Se rompe un piatto apparecchiando, non bisogna aggredirlo immediatamente. Invece, è meglio prima complimentarsi per aver assolto al suo compito, e poi dirgli che “però sarebbe stato meglio se il piatto fosse stato ancora intero”. In generale, funziona molto bene la “regola del sandwich”: un complimento, una critica, un complimento (“Grazie per avermi aiutato, ma non hai ancora sistemato camera tua. Ah, dimenticavo: ancora bravo per l’8 in italiano”).

4 ) Basta una frase: “Ho fiducia in te, ce la farai”. Sembra una banalità, ma il fatto di sapere che qualcuno crede in lui, per il bambino è fondamentale, e lo aiuta ad aver fiducia nelle proprie capacità per affrontare senza paura anche situazioni nuove. Una fiducia che si può rafforzare anche affidandogli qualche responsabilità in casa (adeguata alla sua età, ma senza mettere l’asticella troppo in basso: il “ti piace vincere facile” fa danni).

5 ) Quando lo scoramento prende il sopravvento a causa di una caduta nella strada verso il traguardo, bisogna aiutare il bambino a rialzarsi. Facendogli capire che nella vita un fallimento può sempre capitare, ma che alla lunga gli sforzi vengono comunque ricompensati.

6 ) Il rafforzamento positivo nei confronti del bambino si ottiene anche con piccole cose: “Simpatica la tua maglietta”, “Bella questa pettinatura”, “Il tuo zaino è molto più ordinato di una volta”… Però bisogna evitare di fare l’errore di sovrastimare le sue capacità: dirgli in continuazione “sei un genio”, per esempio, rischia di essere controproducente. Perché, alla prova dei fatti, potrebbe accorgersi di non essere veramente a un livello molto più alto di compagni e amici. E cadere dall’alto di un piedistallo fa più male.

7 ) La buona riuscita a scuola non sempre va di pari passo con le capacità di ciascuno: Einstein (giudicato uno studente mediocre dai suoi professori) ne è l’esempio. Quindi, per preparare un bambino alla vita, è bene fargli coltivare i suoi talenti e le sue passioni, senza pregiudizi: preferite che vostro figlio diventi un ottimo cuoco o un pessimo medico?

Coltivare la memoria del successo

Secondo lo psicologo e pedagogo francese Bruno Hourst, in un articolo pubblicato sul proprio sito, per aiutare i propri figli a diventare degli adulti sicuri di se e del proprio valore bisogna coltivare la “memoria dei successi”: se un bambino si rifiuta di fare qualcosa perché non è certo di riuscire, non saprà mai davvero se invece sarebbe stato in grado di svolgere quel compito.

“Il rifiuto – spiega Hourst – si basa generalmente sulla “memoria dei fallimenti” a cui è andato incontro in passato: il bambino, così come l’adulto, non riesce a immaginare di essere in grado di fare qualcosa perché non si ricorda di essere mai riuscito a fare qualcosa si analogo”.

Ecco allora che bisogna aiutarlo a ricordare i suoi successi, anche i più piccoli, anche quelli che sembrano insignificanti: un bel voto in un compito in classe, per esempio, oppure il fatto di essere riuscito a declamare una poesia davanti a 20 persone, o ancora l’aver imparato ad andare in bicicletta senza rotelle.

Piccole vittorie, senza dubbio, che però possono spingere il bambino a raggiungere traguardi più ambiziosi grazie alla “memoria del successo”.

L’errore comune, rimarca invece il pedagogo, è quello, commesso da molti genitori e insegnanti, “di rimarcare più spesso l’errore rispetto alla buona riuscita, instillando l’idea che il successo è “normale” mentre lo sbaglio è “anormale”. Per di più sostenendo l’idea moralizzatrice che non è bello vantarsi e che bisogna sviluppare la modestia nei bambini. Invece il rifiuto di riconoscere i successi non aiuta né a crescere né a far radicare la fiducia in sé e l’autostima del piccolo”.

Con il rischio, una volta adulto, di sviluppare quella che gli psicologi chiamano “la sindrome dell’impostore”: tutti i propri fallimenti diventano normali, tutti i successi altrui anormali (poiché vengono imputati alla fortuna, all’azzardo, a un intervento esterno…).

Quindi, condensando, la prima regola per Hourst è quella di “ricordare al bambino i successi passati, che diventano il fondamento per quelli futuri”.


Combattere il senso di invisibilità

La “memoria del successo” è importante anche per sconfiggere il senso d’invisibilità che, se è drammatico già per un adulto (basta pensare agli effetti del mobbing), per un bambino è assolutamente devastante.

“In certe occasioni – spiega Hourst – siamo sicuri che potremmo partecipare o apportare il nostro contributo. Ma non esistiamo, nessuno si interessa a quello che potremmo dire, pensare, sentire o fare. È un sentimento comune a molti bambini, a casa o a scuola, allorché pensano (a torto o a ragione) di “non esistere”, di essere “invisibili” per i familiari e gli insegnanti.

In questi momenti è importante aiutarli, con mezzi positivi, a rendersi di nuovo “visibili” a se stessi e agli altri, perché questa “visibilità” psicologica è importante per sviluppare l’autostima e per prevenire comportamenti disturbati o distruttivi, come l’autoesclusione da un gruppo, la violenza su se stessi, sugli altri e sulle cose o l’adesione a gruppi di “cattivi ragazzi” in cerca di visibilità”.

Anche in questo caso, secondo il pedagogo, è utile la “memoria dei successi”: discutendone, si aiuta il bambino a tornare visibile. Ed è utile farlo in forma visibile, magari creando un “calendario dei successi”, o una “scatola dei successi”, che contengano l’indicazione di tutti i traguardi raggiunti.

Concetta Desando, giornalista professionista (tratto da “Nostro figlio”)

 

HOLDING: GLI ABBRACCI CHE CALMANO E GUARISCONO

Oggi vogliamo proporre un metodo efficace e utilizzato in ambito educativo, anche se ancora poco conosciuto dai genitori; stiamo parlando del metodo Holding

 

Di fronte a una crisi del bambino, gli adulti reagiscono nei modi più disparati: chi lo ignora, chi perde il controlla a sua volta e comincia a sbraitare, chi cerca di ragionare e chi utilizza un premio o una punizione come elemento esterno di distrazione.

Oggi vogliamo proporre un metodo efficace e utilizzato in ambito educativo, anche se ancora poco conosciuto dai genitori; stiamo parlando del metodo Holding. Questo metodo ricorre all’abbraccio, un gesto d’affetto universale, che diventa un contenitore per le emozioni del bambino.

Rispetto ad un normale abbraccio, l’abbraccio del metodo holding è un abbraccio contenitivo, che si applica in un momento di forte agitazione psicomotoria del bambino: ad esempio durante una crisi emotiva (rabbia incontrollata, pianti e urla). E’ un abbraccio forzato, inizialmente non corrisposto: sarà l’adulto a dover abbracciare con fermezza il bambino, contenendone le emozioni e lasciando che, attraverso la forza di quell’abbraccio, si possa ritrovare l’equilibrio.


Breve storia del metodo Holding

Inizialmente applicato a bambini affetti da disturbi dello spettro autistico o disturbi pervasivi dello sviluppo, il metodo si delinea negli anni ‘70 come una soluzione efficace ai momenti di alterazione emotiva dei bambini .

Marta Welch, psicoterapeuta che aveva iniziato la sperimentazione, trovò che la tecnica fosse efficace anche con i bambini normodotati e ne estese l’utilizzo anche ai capricci, ai momenti di rabbia e alle altre esternazioni emotive.

Ma qual è l’idea alla base del metodo? La dott. sa Welch si era accorta che, come i neonati hanno bisogno del contatto fisico con la madre, anche i bambini più grandi traevano beneficio da questo contatto, che li rassicurava e rasserenava. E così, provò a sperimentare un “abbraccio forzato” nelle situazioni in cui il bambino perde il controllo, con ottimi risultati.


Per chi vuole utilizzarlo

Come si fa? Il bambino deve essere avvolto dal nostro abbraccio, con dolcezza ma anche con grande fermezza. Se possibile, si dovrebbe guardare il bambino negli occhi. Questa tecnica, partendo dal contenimento fisico di una crisi, diventa un contenimento emotivo. Solitamente, dopo un momento iniziale, la tensione del bambino si scioglie e il nostro abbraccio viene ricambiato.


La principale difficoltà è quella di mantenere la calma e la fermezza del nostro abbraccio, nonostante i calci e gli strepiti dei bambini: infatti, prima che si calmino, potrebbe essere necessario qualche minuto.

Il vantaggio di questo metodo è lo speciale legame affettivo che si instaura con il bambino, che si sentirà compreso e accettato. Rispetto a un rimprovero, l’abbraccio contenitivo non farà sentire in colpa il bambino; al contrario, calmerà le sue paure e la frustrazione ad un livello emozionale, profondo.

L’abbraccio holding va bene con tutti i bambini? In linea di massima sì, però ogni piccolo è un caso a se: se ci dovessimo accorgere che il nostro abbraccio scatena il panico del bambino, sarà meglio ricorrere ad un’altra tecnica. Come sempre, quando si parla di educazione, solo la sensibilità del genitore/educatore può guidarci nella scelta del metodo migliore.

Il metodo è assolutamente sicuro: l’abbraccio, per quanto fermo, non rappresenta in alcun modo una forma di violenza per il bambino e non si corre il rischio di fargli del male; abbracciare, del resto, è il più naturale dei gesti di affetto. Se pensiamo di sperimentarlo in un contesto educativo, può essere utile parlarne prima con le famiglie o con il responsabile dei servizi, onde evitare fraintendimenti: è una tecnica efficace e scientificamente provata, ma spiegare prima che la useremo (e come) eviterà qualsiasi controversia.

Per approfondire questo metodo ti consigliamo la lettura del libro di Martha Welch: L’abbraccio che guarisce. La tecnica corporea dell’holding per eliminare capricci, gelosie, accessi d’ira dei bambini, Red! Edizioni. Non è più disponibile in commercio, ma potrai trovarlo facilmente in biblioteca.

Tratto da “Portale Bambini”

 

SVILUPPO DELL'AUTOSTIMA: COME INFLUISCE LA FAMIGLIA

Lo sviluppo dell’autostima è alimentato (in parte) dalle dinamiche familiari nelle quali siamo cresciuti e siamo stati educati.

 

È un lascito che ci portiamo dietro e talvolta difficile da sanare, soprattutto se abbiamo avuto dei genitori che non hanno mai amato se stessi e che non sono stati capaci di soddisfare i nostri bisogni, sostenerci o consolarci dal profondo del loro cuore.

Non mancano gli psicologi che dicono che per avere successo nella vita occorre avere il magazzino dell’autostima ben riempito. Che lo si voglia o meno, sono pochi i “combustibili” che ci danno tanta determinazione, autostima e senso di competenza. Tuttavia, e questo lo sappiamo bene, spesso viviamo la vita e ci muoviamo nel mondo con livelli di autostima molto bassi, talmente minuscoli che è quasi impossibile azionare il motore che ci fa superare noi stessi.

“Le persone cominciano ad avere successo il minuto in cui decidono di averlo”.
~ Harvey Mackay ~


Proprio come spiega la celebre antropologa culturale Margaret Mead, la famiglia è il primo gruppo sociale nel quale le interazioni che si verificano determinano in buona parte chi siamo. I nostri genitori hanno il dovere e l’obbligo di riempire il nostro magazzino di nutrienti adeguati, di ricche componenti dove non manchi la sicurezza, l’affetto, la considerazione e quell’impulso vitale capace di spingerci a camminare nel mondo sentendoci preziosi e importanti.

Tuttavia, nel duro cammino dello sviluppo della autostima, non contiamo sempre su detto combustibile. Questo ci spinge inevitabilmente a intraprendere un cammino di auto-ricerca e, soprattutto, di riparazione di questa infanzia nella quale ci sono mancate troppe cose.


Lo sviluppo dell’autostima e la sintonia con i nostri genitori

Lo sviluppo dell’autostima ha inizio nell’infanzia. Questo vuol dire forse che è determinato solo dalle esperienze previe accadute nella nostra infanzia e prima giovinezza? Bene, in psicologia, come in gran parte delle scienze, la parola “determinismo” è pericolosa e presenta delle sfumature profonde.

In materia psicologica, tutto quello che è successo nell’infanzia influisce molto su di noi, ma non ci determina. In altre parole, sappiamo che l’essere umano, e in particolare il cervello, è dotato di immensa plasticità e capacità di superamento. Questo ci obbliga ancora una volta a concentrarci sulla grande importanza dell’educazione che si riceve e sulla qualità delle interazioni con chi ci accudisce e fornisce non solo alimenti e sostentamento, ma anche un lascito emotivo ed educativo.
Per approfondire queste tematiche, è sempre interessante leggere il Dottor Ed. Tronick, esperto di sviluppo infantile e professore di pediatria alla Harvard University. Un dato interessante che ci rivela questo psicologo è che, per favorire un corretto sviluppo dell’autostima e fornire un buon sostegno ai bambini, è necessario essere emotivamente sintonizzati con loro. In molti dei suoi lavori, tuttavia, ha potuto dimostrare che il 40% delle volte persino i bravi genitori non riescono a entrare in sintonia con i propri figli.

Molto probabilmente questo dato ci sembrerà allarmante e persino drammatico. Tuttavia, il dottor Tronick ci invita a una riflessione. Il motivo per cui molti genitori non entrano in totale connessione con i bisogni emotivi dei propri figli è perché non lo fanno neanche con loro stessi.

Un genitore carico di stress, resistenze e nodi emotivi irrisolti invierà una serie di codici, schemi incoscienti e linguaggi al bambino, il quale li assorbirà per farli propri. Senza parlare, inoltre, della chiara difficoltà a erigere nei piccoli una buona autostima, se nei genitori stessi non vi sono solide fondamenta, radici profonde con le quali dare l’esempio, con le quali guidare con prontezza e sicurezza.


La famiglia influisce, ma decidiamo noi

Lo sviluppo dell’autostima nel corso dell’infanzia si vede influenzato soprattutto da tre fattori: l’aspetto fisico, il comportamento e il rendimento accademico. Il modo in cui i nostri genitori si pongono verso queste tre dimensioni può incoraggiarci ad accrescere la nostra sicurezza e fiducia o, al contrario, può collocarci nella conchiglia dell’impotenza, della solitudine e della paura.

“La peggior solitudine è non essere a proprio agio con te stesso”,
~ Mark Twain ~


L’aspetto più complesso è che, ai giorni d’oggi, continuiamo a vedere molti genitori immaturi e inconsapevoli in termini di attenzione nei confronti del proprio linguaggio e modo di comunicare. È sufficiente ascoltare le loro conversazioni davanti alla soglia delle scuole per captare quanto, senza rendersene conto, strappino una dopo l’altra le ali dell’autostima dei loro figli.

L’uso di paragoni, di affermazioni assolute (sei negato in matematica, non sarai mai promosso…) o l’incapacità di vedere problemi emotivi nascosti si verificano spesso e inducono le nuove generazioni a commettere lo stesso problema dei loro genitori: la mancanza di autostima.

La famiglia influisce sullo sviluppo dell’autostima di una persona, lo sappiamo, ma quanto successo in passato non ha alcun motivo di determinare tutta la vita. Sta a noi smettere di farci del male, perché non abbiamo il combustibile pieno di forza personale. Nel nostro orizzonte c’è la possibilità di riparare un’infanzia di mancanze per raggiungere la giusta maturità.

È necessario imparare a bastare a noi stessi, a compensarci da soli, a smettere di cercare all’esterno ciò che possiamo e dobbiamo essere in grado di offrirci in prima persona. Sull’autostima si lavora giorno dopo giorno, richiede dei cambiamenti, ci chiede di essere coraggiosi e, prima di ogni altra cosa, di avere una grande dose di amor proprio. In qualsiasi modo si sia svolto il nostro passato, siamo sempre in tempo ad apportare dei cambiamenti, a investire sulla nostra autostima.

Tratto da “La mente è meravigliosa”

 

GENITORI CHE MANIPOLANO I FIGLI: DIPENDENZA AFFETTIVA IN FAMIGLIA

Il legame affettivo tra genitore e figlio è l’amore primigenio, costituisce per tutti la forma primaria d’amore e si struttura come matrice delle esperienze sentimentali successive.

L’amore genitoriale e quello filiale hanno la caratteristica, unica nella vita di ogni essere umano, di realizzarsi tra individui che non si sono scelti l’un l’altro: il genitore ha (quasi sempre) deciso di concepire, e inevitabilmente ripone nel nascituro un qualche ideale e molte aspettative; il figlio o la figlia, invece, nascono e basta. Ovviamente, non hanno designato il loro oggetto d’amore e molti figli impiegheranno una vita ad accettare i propri genitori per quello che sono.

Allo stesso tempo, la capacità genitoriale che presuppone la capacità di amare incondizionatamente un bambino, di fornirgli le cure, la protezione e l’affetto necessari perché cresca come un adulto sano ed autonomo, non è una proprietà genetica, ma il frutto di equilibrio e consapevolezza dei padri e delle madri.

È diffusa una rappresentazione didascalica dei ruoli di padre e di madre che, come ogni stereotipo sociale, rasenta appena la realtà. Quella dei genitori uniti, dei genitori intrinsecamente capaci di prendersi cura e di crescere i figli.

La favola della “sacra famiglia”, invece, cede spesso all’esame di realtà. Coppie stanche, nevrotiche, divise, a volte sfibrate sin dall’origine, possono, senza dirselo e ancor meno saperlo, generare un figlio con l’intento maldestro di ridarsi un senso e stabilire, causa maternità/paternità, una tregua all’infelicità coniugale. E questa è probabilmente la radice della manipolazione affettiva dei genitori verso i figli.

Per esempio, il genitore manipolatore utilizza, per lo più inconsciamente, il bambino per avvantaggiarsi dell’affetto del coniuge, o per controllarlo. In altri casi, il bambino viene egoisticamente investito dal ruolo insostenibile di soddisfare i bisogni affettivi del genitore, di compensare la sua infelicità coniugale e/o esistenziale.

O, ancora, il figlio può essere utilizzato come “banca genetica” e sottoposto a pressioni affinché riproduca e conservi l’identità della “famiglia”, riproduca –magari in forma migliorata, compensando i “sogni mancati” della madre o del padre- il percorso dei genitori: dovrà fare lo stesso lavoro e dovrà comportarsi nello stesso modo dei genitori. Pena il silenzio, la punizione e il ricatto affettivo.

Burattini emotivi.

Così i bambini cullati nelle maglie del ricatto affettivo rischiano di trasformarsi in burattini emotivi designati a intrattenere per tutta l’infanzia lo spettacolo dei figli perfetti o dei figli problematici per compiacere genitori manipolatori, per conseguire il loro plauso nell’inconsapevole teatrino familiare. Sino alle svolte dell’adolescenza e dell’età adulta, dove questa crudele imposizione di ruolo potrebbe crollare disastrosamente e provocare lutti, conflitti e sintomi dilanianti, come succede, a volte anche più precocemente, nelle famiglie dove uno o entrambi i genitori manipolano i figli.

Quando un figlio nasce sotto la cattiva stella di una coppia irrisolta, purtroppo non tarderà a restituire ai genitori il peso della responsabilità inaccettabile di cui lo hanno gravato.

Ci sarà un momento nel suo ciclo di vita – l’infanzia, l’adolescenza o la prima età adulta- in cui il figlio sentirà la necessità di sottrarsi alla disfunzionalità affettiva di cui, egoisticamente anche se inconsapevolmente, è stato oggetto sin dal concepimento.

Il tentativo di svincolo può realizzarsi in diversi modi: per contestazione/conflitto, per auto-annullamento/resa o attraverso sintomi dello spettro psicopatologico come ansia, depressione e psicosi.

Contestazione/conflitto: tradire le aspettative dei genitori, fallire, deviare, anche gravemente, dai codici familiari (abuso di sostanze, comportamenti pericolosi e autolesivi, stile di vita promiscuo, ecc.)

Auto-annullamento/resa (per lo più asintomatica): manifestare di continuo il bisogno di approvazione dai genitori, uniformarsi passivamente alle attese familiari e riprodurre, nella propria vita, coppie e matrimoni infelici;

Sintomi: depressione, ansia, attacchi di panico, fobia sociale, inadeguatezza sociale, immaturità affettiva, solitudine, dipendenza affettiva.

Ognuna di queste condizioni si presenta associata alla dipendenza e alla manipolazione affettiva di almeno un genitore verso il figlio, ovvero una eccessiva e “storica” focalizzazione sul figlio correlata all’insoddisfazione grave relativa alla vita personale o di coppia.
In generale, i fattori di rischio di questa forma di manipolazione genitore-figlio,, spesso mascherata da “migliori intenzioni” o da “io so cosa è meglio per mio figlio”, si evidenziano nell’eccessivo controllo e nell’apprensione abnorme per le qualunque manifestazione di autonomia del figlio, vissuto non come individuo a sé, autonomo e capace, ma come fragile e inadeguata promanazione della madre e/o del padre.

Nella pratica psicoterapeutica non è raro incontrare bambini, adolescenti e giovani inviati dai genitori perché sofferenti, a volte drammaticamente sofferenti. E’ invece meno frequente stabilire un contatto davvero autentico e collaborativo con la coppia genitoriale. Quanto più la dipendenza affettiva verso il figlio o la figlia è strutturata, tanto meno sarà agevole coinvolgere la famiglia nel processo terapeutico. A volte, il rifiuto sarà netto, altre volte velato.

Nel caso di figli maggiorenni e relativamente autonomi, il terapeuta può certamente intervenire e incoraggiarli a dipanare pian piano i guinzagli emotivi che vincolano il loro sviluppo come adulti.

Nel caso di bambini e adolescenti, invece, il groviglio è più intricato perché implica la partecipazione della coppia genitoriale alla terapia e necessita giocoforza di una riflessione sulla funzionalità coniugale, sulla situazione attuale e sulla storia matrimoniale. Argomenti da cui i genitori manipolatori rifuggono quando, a qualche livello, avvertono che trattarli potrebbe modificare il precario equilibrio dipendente su cui, seppure inconsciamente, hanno fondato la coppia prima e la famiglia poi.

Enrico Maria Secci, Blog Therapy, Psicologo – Psicoterapeuta (tratto da “Psicoadvisor”)